Storie di aziende che tornano a produrre in Italia.
Che cos’hanno in comune aziende come Beghelli di Bologna (sistemi di sicurezza) e Azimut di Torino (cantieri navali di lusso), Gpp di Castelfranco Veneto (tosaerba) e Furla di Bologna (pelletteria), Seventy di Venezia (abbigliamento) e Fiamm di Vicenza (accumulatori e clacson), Artsana di Como (prodotti sanitari e per l’infanzia), Natuzzi di Santeramo in Colle (divani) e Asdomar di Olbia (tonno in scatola)? Sono marchi noti, simbolo dell’industria italiana, aziende che una decina d’anni fa avevano trasferito all’estero una parte della loro produzione e che adesso fanno il percorso inverso: ritornano.
Per alcuni la delocalizzazione è stata una scelta estrema, l’ultima possibilità per non chiudere; per altri invece un’opportunità di sviluppo: basso costo della manodopera, minori tasse, disponibilità immediata di materie prime, nuova clientela. Ma negli ultimi anni le cose sono cambiate: vi è stato un aumento dei costi legati alla manodopera, trasporti, logistica, il rapporto euro/dollaro più favorevole agevola le esportazioni dal nostro Paese, ma soprattutto viene enormemente rivalutato il peso del «made in Italy» la cura artigianale dei nostri manufatti che il mercato internazionale apprezza sempre di più.
Le aziende italiane fanno dietrofront e tornano in Italia per ragioni legate soprattutto alla qualità delle lavorazioni, alla perizia delle maestranze locali, alle opportunità di innovazione tecnologica ed alla volontà di fornire un servizio «su misura». Il«Made in Italy» è oggi globalmente riconosciuto come marchio di qualità del prodotto, frutto della competenza e della creatività degli italiani.